Diario di viaggio Giappone e Qatar: visitare il Giappone in 7 giorni si può!
9 Ottobre 2017
0
Diario di viaggio Giappone, con piccolo scalo a Doha in Qatar: oggi inizio a raccontarti il mio viaggio in Giappone di una settimana, trascorso principalmente a visitare Tokyo, i suoi eclettici quartieri e la città vicina Kamakura. Abbiamo scelto una sistemazione più economica per gran parte del soggiorno, e l’ultima notte l’abbiamo trascorsa in uno splendido ryokan di Tokyo (una locanda tradizionale con onsen privata).
Nel post sulla scelta del volo per il Giappone ho raccontato come e perché ho scelto di arrivare a Tokyo con la Qatar Airways. Era previsto un giorno di scalo in Qatar, a Doha, e ne ho approfittato per farmi un piccolo giro in città, dormendo lì per una notte.
Ti racconterò dell’arrivo dell’emiro qatariota in SUV e dell’intervista che ci hanno fatto per un giornale locale; di taxi giapponesi coi merletti. Posso dirti con assoluta certezza che questo è il più figo dei diari di viaggio in Giappone.
Ora ti lascio al viaggio in Giappone, e ti anticipo che ho riportato le parole esatte del mio diario di viaggio vero. Spero che ti piaccia!
→ Leggi anche: cosa vedere a Tokyo in 3 giorni
Diario di viaggio Giappone: lo scalo a Doha e l’incontro con l’emiro
In questo momento sono sul volo da Doha a Tokyo, e sto cercando di non dormire. Non è facile. Io e Massimo abbiamo dormito sì e no dieci ore in due giorni, e il mio orologio segna le undici e quarantacinque italiane, ma so che mancano meno di quattro ore all’arrivo e in Giappone saranno le ventidue. Perciò nella mia testa è metà mattina, ma all’arrivo sarà sera inoltrata. Non è nemmeno notte, o il tramonto. Sto impazzendo. Però che roba strana e fighissima il cambio di fuso orario…

Ieri mattina abbiamo scoperto, in aeroporto, che la Qatar Airways ci obbligava a inviare il bagaglio da stiva direttamente a Tokyo, nonostante lo scalo di una notte intera a Doha. La cosa non mi convince, non era scritto da nessuna parte quando ho preso il biglietto e non ne capisco il vantaggio per la compagnia aerea.
Il risultato comunque è stato uno: ci siamo allontanati dai banchi del check-in e abbiamo messo ciò che poteva servirci per la notte a Doha nel trolley piccolo – fortuna che ce lo siamo portato dietro! – e abbiamo tenuto quello e il mio zaino come bagaglio a mano, mandando il stiva l’altro bagaglio grande. Purtroppo, nella fretta, ci siamo dimenticati alcune cose importanti, come il deodorante e un reggiseno pulito per me.
Il giorno a Doha in Qatar
Appena siamo arrivati a Doha mi sono stupita dell’effetto che mi ha fatto vedere il deserto. Lungo la rotta siamo passati anche sul deserto dell’Iran e sono rimasta imbambolata a fissarlo dal finestrino. Non credevo che avesse il potere di affascinarmi.

Al controllo dell’immigrazione Massimo è passato tranquillo, a me invece sono state fatte diverse domande. Il tizio mi ha guardata sospettoso e mi ha chiesto prima una misteriosa card, poi quanto intendevo stare a Doha e il nome dell’hotel. Un collega gli ha detto qualcosa e si sono decisi a mollarmi. Voglio credere che facciano controlli a campione, e non che l’abbiano fatto perché sono donna. In Qatar è tutto strano se sei donna…
Abbiamo prelevato le monete qatariote, i riyal, al bancomat, perché non trovavamo un ufficio di cambio. Poi abbiamo preso un taxi, perché dicono che la rete dei mezzi pubblici a Doha faccia abbastanza schifo. I taxi di Doha sono verde menta, e lo sono pure alcuni pullman.
Mentre arrivavamo in hotel siamo passati vicino alla Corniche, il lungomare, e c’era un sacco di gente che agitava le bandiere del Qatar. C’entrava qualcosa con l’emiro, ma non sono riuscita a capire di più.

C’era un po’ di traffico e abbiamo speso quaranta riyal per arrivare in hotel. Sono meno di dieci euro.
Abbiamo alloggiato al Saraya Corniche Hotel al prezzo di 78 euro in camera doppia. L’hotel era molto carino, la stanza era grande e ben arredata, la posizione invidiabile.
Disclaimer: cliccando su questo link puoi prenotare l’hotel comparando i migliori prezzi sul mercato. Il link è in affiliazione quindi io guadagnerò qualcosa dalla tua prenotazione, ma per te il prezzo rimarrà invariato.

Ci siamo cambiati i vestiti e io ho messo una gonna lunga fino ai piedi, i sandali e una t-shirt. Per quello che riguardava l’abbigliamento femminile in Qatar, sul sito della Farnesina consigliavano di coprire spalle, ginocchia e collo, ma quest’ultimo non sembrava importante.
La mia fotocamera, nel frattempo, si era inspiegabilmente scaricata, quindi sono riuscita a fare foto solo col cellulare.
L’arrivo dell’emiro a Doha
Per scrupolo, prima di uscire dall’hotel sono tornata alla reception e ho chiesto se potevamo andare tranquillamente sulla Corniche, essendo turisti. Intorno all’hotel continuava a girare gente con le bandiere del Qatar, e avevo visto solo donne e uomini in abiti tradizionali arabi, le prime in abaya nero e i secondi in kandura bianchi. Non sapevo cosa stava succedendo, e avevo paura di infastidire i qatarioti. Il secondo receptionist ci ha spiegato cosa stava succedendo: l’emiro del Qatar stava tornando da New York e tutta Doha lo stava aspettando con trepidazione. Noi, comunque, potevamo andarcene in giro indisturbati.
Mi sono un po’ infastidita quando ho notato che il receptionist continuava a guardare e a parlare solo con Massimo, nonostante fossi io a fargli le domande sull’emiro. Ma non ero io il problema; è che in Qatar gli uomini non si rivolgono mai alla donna di qualcuno, o forse alle donne in generale. Per la mia cultura è un po’ offensivo, ma… il mondo è bello perché è vario, giusto?
Incuriositi dall’evento siamo andati nella direzione in cui avevamo visto le persone con le bandiere. C’era davvero un macello: la Corniche era transennata e piena di uomini e donne, coperti dalla testa ai piedi, che sventolavano bandiere nazionali; il traffico era completamente FERMO, anche sulle strade laterali; i poliziotti sui marciapiedi fermavano chiunque passasse da quella parte. I poliziotti hanno fermato anche noi, perciò ci siamo messi accanto a loro ad aspettare il passaggio dell’emiro. Alla fine, dopo una lunga fila di SUV bianchi e sotto tre grossi elicotteri, l’emiro Tamim bin Hamad al-Thani ha attraversato la Corniche in mezzo ai gioiosi festeggiamenti dei suoi sudditi. Io ho provato a riprendere tutta la scena col telefono, ma dopo mi sono accorta di non aver registrato nulla e, niente, sono una cretina.

Mezzo secondo dopo il passaggio dell’emiro, un tizio si è avvicinato a Massimo dicendo che voleva intervistarlo per un giornale locale. Massimo in quel momento si è un po’ impanicato e io mi sono offerta di aiutare con la traduzione delle domande e le risposte. Il tizio ha acconsentito, non prima di avermi lanciato una strana occhiata. Armato di registrazione sul telefono, ha chiesto a Massimo se eravamo venuti in Qatar per salutare l’emiro. Abbiamo risposto che eravamo lì semplicemente in transito. Quello lì per lì c’è rimasto un po’ male, poi ci ha chiesto se eravamo lì alla Corniche per vedere l’emiro e noi abbiamo risposto di sì. Ha aggiunto un paio di domande sulla nostra provenienza e sui nostri piani, poi ci ha scattato due foto e ci ha lasciato un biglietto da visita, dicendo che saremmo apparsi sul giornale del giorno dopo. Spoiler: non abbiamo fatto in tempo a comprarlo, quel giornale.
Il corteo dell’emiro si è concluso con un’altra lunga fila di SUV. Eh, vabbè. Si vede che agli emiri piacciono i SUV.
Dopo abbiamo raggiunto il lungomare di Doha, la Corniche. C’era un’umidità pazzesca che s’appiccicava addosso, ma tutte le donne erano coperte dalla testa ai piedi, avvolte in questo abito nero tradizionale chiamato abaya. Gli uomini avevano un vestito molto simile, ma bianco. E ora mi chiedo: come cacchio faranno a reggere quel caldo? Ci nasconderanno dei ventilatori lì sotto?
Io, purtroppo, mi sono sentita molto osservata: uomini e donne si giravano neanche troppo discretamente a fissarmi, e se n’è accorto pure Massimo. Non saprò mai se mi guardavano perché non indossavo l’abaya per il ritorno dell’emiro, o se perché avevo proprio toppato il tipo di abbigliamento da indossare. In ogni caso, nessuno mi ha detto niente.

Accanto al Museo dell’Arte Islamica si vedeva il classico skyline di Doha con i grattacieli dell’area residenziale e io ho scattato una cifra di foto, ma non sono riuscita ad ottenere grandi risultati tra la qualità scarsa della fotocamera del telefono, l’oscurità e l’umidità che c’era.
Avevo letto che a Doha c’era la possibilità di fare un giretto in dhow, quelle che credevo fossero barchette qatariote e invece erano barcone qatariote, e che vanno molto in voga tra i turisti. Ma purtroppo era tutto spento e non c’era nessuno a bordo, quindi mi sa che di sera non ci si può fare nessun giretto.

Qualche metro più in là, Doha sembra una città povera e abbandonata: ci sono marciapiedi spaccati, poca illuminazione nelle strade, e vetrine opache di locali che sembrano poco raccomandabili. Cercando il Souq Waqif siamo finiti in due centri commerciali completamente vuoti. C’eravamo solo noi. I commessi erano tutti fuori dai negozi e ci guardavano passare. Non è stata una bella sensazione. Nelle vetrine ho notato che non c’erano vestiti, ma metri e metri di stoffe bellissime appuntate contro manichini femminili. Chissà, forse in Qatar vendono solo abiti su misura e te li fanno al momento.
Per cena siamo tornati in hotel e abbiamo approfittato del ristorante. Purtroppo il servizio era davvero lentissimo, soprattutto se consideri che c’eravamo solo noi e un altro tavolo. I piatti ci sono arrivati dopo buona mezz’ora, però tutto sommato erano buoni. Massimo ha scelto un piatto a base di carne locale pagato l’equivalente di venti euro, ovviamente senza maiale che è vietatissimo in Qatar, insieme all’alcool. Io ho preso un biryani di pollo piuttosto piccante.
Ho notato che c’è molto della cucina indiana in Qatar…

Diario di viaggio Giappone: l’arrivo a Tokyo
Siamo atterrati all’aeroporto di Tokyo Haneda un’ora prima del previsto: alle nove e mezza eravamo già qui!
Entrando in aeroporto abbiamo incontrato un giapponese ogni dieci metri che stava lì al solo scopo di salutarci. Giuro. Erano tutti lì nel terminal degli arrivi, un cartello con welcome to Japan tra le mani e un mezzo inchino mentre passavamo. Troooooppo carucci! Il viaggio in Giappone non poteva iniziare meglio!
Al controllo passaporti c’era un poliziotto accanto alla nostra fila che stava in piedi sopra ad un cubo. Fermo lì sopra, immobile come una statua umana. Un’altra signora, invece, passava e controllava i documenti per verificare che fossimo nella fila corretta. Un quadrato blu sul pavimento con la forma dei piedi indicava dove dovevamo fermarci ad aspettare il nostro turno di fronte al banco del controllo passaporti.
Qua in Giappone è pieno di queste robe qui: uomini che fanno cose strane e poi segnali, pupazzetti, indicazioni colorate e quadrati sul pavimento. La figata è che la gente li rispetta pure!
Se stai per organizzare un viaggio in Giappone forse saprai che, appena arrivi in aeroporto, devono farti una foto e prendere le tue impronte digitali. Ecco, io questo passaggio me lo immaginavo così:

Giuro. Me la stavo facendo sotto per ‘sta foto.
Invece la registrazione della foto e dell’impronta digitale è questione di un minuto, una roba velocissima. Ti piazzi al banco, molli il passaporto e il custom declaration form compilato all’addetto, poi fissi un minuscolo obiettivo sul bancone e premi gli indici su un rilevatore di impronte digitali. Rapido e indolore.
Per saperne di più sul custom declaration form leggi → 9 cose che ho scoperto andando in Giappone
Ci tengo a segnalare altri giapponesi che fanno cose strane in aeroporto: al nastro bagagli c’era un ragazzo coi guanti bianchi che prendeva al volo le valigie e le sistemava delicatamente sul rullo.
Prima di uscire dall’aeroporto abbiamo comprato la Pasmo card, una carta elettronica che va ricaricata e serve a pagare i mezzi pubblici in Giappone.
Per raggiungere l’hotel abbiamo preso la metropolitana della linea Keikyu. Erano le undici di sera e la linea normalmente prosegue fino ad Asakusa, ma a mezzanotte precisa ci siamo fermati alla stazione di Shinagawa e ci hanno fatti scendere tutti. Ci abbiamo messo un po’ a capire che non avremmo potuto prendere un altro treno, perché qualche secondo dopo se n’è fermato un altro e noi siamo saliti, ma ci hanno fatto scendere di nuovo. In Giappone a mezzanotte si ferma tutta la metropolitana raga’, dove stai stai, quindi siamo usciti dalla stazione e abbiamo proseguito con un taxi, l’unica opzione disponibile per arrivare in hotel in tempi decenti.
I taxi giapponesi hanno gli sportelli che si aprono e si chiudono da soli, c’hanno i sedili coi merletti bianchi e gli specchietti retrovisori sugli spigoli del cofano. E purtroppo i taxi giapponesi sono anche piuttosto cari: per arrivare da Shinagawa al nostro albergo di Asakusabashi abbiamo speso 4500 yen (circa 33 euro), ma dall’aeroporto sarebbe stato ancora più caro.
L’arrivo in hotel
La nostra stanza dell’Hotel Mystays Asakusabashi non è piccola, è davvero microscopica. Sarà larga due metri e lunga quattro, non c’è l’armadio, il letto da una piazza e mezza è attaccato al muro, e per passare dobbiamo tirare su le valigie dal corridoietto. Però è pulitissima e per il resto c’è tutto: scrivania, TV con canali giapponesi, cassaforte inglobata nel letto e addirittura una mini lampada per le emergenze.
La posizione dell’hotel è ottima, perché si trova ad un passo dalla fermata metropolitana di Asakusabashi e dallo splendido quartiere di Asakusa. Al piano terra, inoltre, c’è una lavanderia a pagamento e un grazioso conbini (un piccolo supermercato giapponese) aperto ventiquattr’ore al giorno, dove si può comprare la cena e parecchie altre cose. Il prezzo che abbiamo pagato è di 307 euro per cinque notti, davvero poco in confronto ad altri hotel.
La foto della camera è uscita malissimo, ma ci tengo a mostrartela comunque.

All’ingresso della camera abbiamo trovato uno spazio per lasciare le scarpe, delle tisane e delle ciabattine che servono per usare la toilette.
Anche il bagno della camera era microscopico, ma non mancava niente. Partendo da lui: il washlet. Il wc giapponese. Lui e le sue 49674 funzioni. Mi ci sono seduta sopra ed è partito lo sciacquone a caso. facendomi prendere un colpo. Ma è tutto regolare: lo sciacquone serve a coprire il rumore della pipì delle timidone, e dura due minuti perché si vede che le giapponesi c’hanno la pipì veloce.
Altre caratteristiche dei bagni giapponesi sono:
- una vasca dalle sponde che mi arrivavano all’anca
- un lavandino tondo
- i dispenser con tutti i saponi
- le cosine usa e getta per lavarsi, le cosiddette amenities (che a me sembra sempre una brutta parola)
Anche qui allego la foto come prova di quello che dico, ché se no la gente me piglia per scema.
Ti lascio il link affiliato per prenotare l’hotel, perché io tutto sommato mi sono trovata veramente bene!
Disclaimer: cliccando su questo link puoi prenotare l’hotel comparando i migliori prezzi sul mercato. Il link è in affiliazione quindi io guadagnerò qualcosa dalla tua prenotazione, ma per te il prezzo rimarrà invariato.

Per “cena”, dato che ormai avevamo superato la mezzanotte da un pezzo, abbiamo approfittato del conbini del piano terra. Abbiamo comprato due ramen a caso, due onigiri e un dorayaki ai fagioli azuki. Era tutto buonissimo, tranne il mio ramen che era maledettamente piccante.
In Giappone hanno l’abitudine di risucchiare rumorosamente il ramen bollente per mostrare apprezzamento, e io ho usato quello che avevo comprato per far pratica, ma… dopo tre secondi avevo già perso sensibilità alla bocca.

Diario di viaggio Giappone: una giornata nel quartiere Asakusa
Oggi siamo stati ad Asakusa, uno dei quartieri più antichi di Tokyo, e ci siamo andati a piedi da Asakusabashi. Saranno stati tre chilometri, neanche tanti, e ce li siamo fatti costeggiando il Sumida-gawa, il fiume che attraversa Tokyo.

La prima tappa del giorno era l’ufficio turistico di Asakusa. Volevo prendere una mappa della città, ma ho scoperto che non ne esiste una. Tokyo è troppo grande per una cartina, bisogna prenderne una per ogni quartiere o non se ne esce.
All’ultimo piano della palazzina dell’ufficio turistico c’è un bar e un terrazzino dal quale è possibile vedere il panorama sulla citt… ehm, forse solo su Asakusa. Al piano terra invece c’è un ufficio di cambio: io ne ho approfittato per cambiare qualche euro in yen, ma ho scoperto troppo tardi che non era conveniente.

Visita al tempio Senso-ji
Prima di proseguire verso il tempio Senso-ji abbiamo approfittato della smoking area dell’ufficio turistico per una sigaretta. A Tokyo non si può fumare per strada, ma solo in apposite aree e in alcuni locali.
Il tempio Senso-ji è il tempio buddhista più antico di Tokyo, ed è davvero stupendo. L’ingresso è piuttosto riconoscibile grazie alla Kaminarimon, la Porta del Tuono. Chiaramente ci vado io e ci trovo i lavori in corso.
Oltrepassato il Kaminarimon si apre la Nakamise-doori, una stradina graziosissima che conduce al tempio, piena di negozietti di souvenir e delizie giapponesi. Noi ci abbiamo comprato un melonpan, un dolcetto tipico del quartiere Asakusa.. Il melonpan pare ‘na rosetta di pane, e invece è fatto di una pasta molto morbida, dolce e zuccherosa. Si può mangiare con un ripieno di gelato o di carne.
Le persone che vogliono pregare al tempio devono mettersi in fila; quando arriva il loro turno lanciano una monetina dentro un affare di metallo, e poi pregano. Noi non lo abbiamo fatto, perché ci manca pure che offendo una divinità giapponese e poi sto a posto. In compenso ho fatto rifornimento di amuleti portafortuna.
Nello stesso complesso ci sono altri templi minori e una pagoda, e un laghetto con le carpe. Il Senso-ji è un posto davvero bellissimo.


Tornando su Nakamise-doori ci siamo infilati in una delle gallerie commerciali che spuntano sulla destra, tenendo il tempio alle spalle, e ci siamo fermati a “pranzare” (erano le cinque) in un ristorantino specializzato in ramen. Abbiamo ordinato due ramen tonkotsu (ramen a base di maiale), due gyoza (ravioli giapponesi) e una birra Asahi per un totale di 2710 yen (20 euro). La signora ci ha servito anche due bicchieri d’acqua, io le ho chiesto una bottiglia ma non ci capivamo, e alla fine ho lasciato stare.

Visita al Tokyo Sky Tree
Dopo pranzo ci siamo diretti verso la Tokyo Sky Tree, una torre per telecomunicazioni che è diventata un’attrazione turistica grazie alle sue terrazze panoramiche. E’ la torre più alta del mondo!
Volevo pagare i 4600 yen dei biglietti con una banconota da 10.000, perché avevo solo quella, ma non c’è stato verso: la ragazza del banco di vendita, con un sorriso da un orecchio all’altro, ha continuato a guardarmi speranzosa in attesa che cacciassi fuori i soldi precisi. Alla fine ho pagato con la carta di credito. Sul momento mi è sembrata una cosa molto strana, ma forse le mancava il resto da darmi e non sapeva come dirmelo.
I biglietti acquistati ci hanno permesso di salire al terzo piano della Tokyo Sky Tree, che non è l’ultimo perché quello costava qualcosa come 1300 yen di più. In ogni caso ci siamo goduti una bellissima vista notturna su Tokyo.
A una certa hanno proiettato anche dei fuochi d’artificio sui vetri, e poi è partito un anime romantico. Non so se abbia a che fare con la storia della torre, o se sia semplicemente una storia romantica per le coppiette che vanno a visitarla.

La serata si è conclusa con due onigiri, i triangolini di riso ripieni che compaiono spesso nei cartoni animati giapponesi. Quelli al tonno e maionese sono la fine del mondo, ma anche quello al salmone non scherza!
Diario di viaggio Giappone: secondo giorno ad Akihabara e a Ueno
Tokyo, 27 settembre, mercoledì. Fermi tutti, ho capito che effetto mi fa il jet lag: non mi viene sonno fino alle tre di mattina passate. La cosa che mi fa rodere più di tutto è che io sull’aereo non avevo manco dormito, proprio per evitare ‘sto casino, invece Massimo si era fatto qualche ora di sonno e subiva gli stessi effetti. La prossima volta col cacchio che rimango sveglia dieci ore!
Un giro ad Akihabara
Non avevo fatto nessun tipo di programma per questo viaggio in Giappone, ma sapevo che dopo Asakusa sarebbe toccato ad Akihabara, il quartiere dell’elettronica. Guardando la cartina fregata all’albergo, poi, avevamo visto che potevamo arrivarci tranquillamente a piedi e ne abbiamo approfittato per fare una bella passeggiata seguendo il ponte della metropolitana fino alla fermata giusta. Siamo due geni, dai. E non eravamo neanche gli unici, perché a farci compagnia sullo stesso percorso c’erano diversi studenti e salary men in giacca e cravatta.
Per fare colazione ci siamo fermati in un negozietto della zona che vendeva melonpan di diversi tipi a 300 yen. Lungo il percorso, invece, ci siamo procurati qualcosa da bere ai perfidi distributori di bibite. Perfidi perché ci svuoteresti il portafoglio, mica per altro. Sono così carini!
Siccome sentivo il bisogno di caffeina, con poco più di 100 yen ho preso una bottiglietta di “Georgia”, una bevanda che sa di yogurt al caffè e che mi avrebbe dato subito dipendenza, se solo non avessi intuito che contiene milioni di calorie. Se proprio devo ingrassare, facciamo almeno che sia per qualcosa di più grosso e godurioso, no??
E ora veniamo ad Akihabara. Per essere considerata l’Electric Town di Tokyo mi sembra un po’ piccoletta e i palazzoni coperti di manga sono pochini rispetto a quelli che mi immaginavo io. Però una cosa è certa: questa è la Tokyo che ci immaginiamo tutti!

Passato lo stupore iniziale ci siamo infilati subito in uno dei megastore della Sega, ma siamo usciti quasi subito e a mani vuote: interi piani di distributori di gadget e l’ultimo è una sala giochi. Poco interessante.
Non abbiamo potuto fare a meno di notare un intero palazzo dedicato ai giocattoli erotici, ma non ci siamo entrati (ora me ne pento perché un mio collega ci è andato di recente con i suoi e s’è spaccato dalle risate, ndA). Invece ci siamo messi a cercare Super Potato, e lo abbiamo trovato solo per pura fortuna facendo per la quarta volta il giro intorno ai palazzi.
Super Potato è un palazzo – imbucatissimo e strettissimo – di tre piani completamente dedicato ai retrogames, i giochi degli anni Ottanta e Novanta.

Passato lo stupore iniziale ci siamo infilati subito in uno dei megastore della Sega, ma siamo usciti quasi subito e a mani vuote: 62487 interi piani di distributori di gadget e l’ultimo è una sala giochi. Poco interessante.
Non abbiamo potuto fare a meno di notare un intero palazzo dedicato ai giocattoli erotici, ma non ci siamo entrati (ora me ne pento perché un mio collega ci è andato di recente con i suoi e s’è spaccato dalle risate, ndA). Invece ci siamo messi a cercare Super Potato, e lo abbiamo trovato solo per puro culo facendo per la quarta volta il giro intorno ai palazzi.
Super Potato è un palazzo – imbucatissimo e strettissimo – di tre piani completamente dedicato ai retrogames, i giochi degli anni Ottanta e Novanta.
In realtà, da Super Potato trovi principalmente tre cose:
- le vecchie console degli anni Ottanta e Novanta come il NES o la Playstation 1 (che costava 500 yen, meno di 4 euro!);
- Super Mario Bros, però molti gadget non si possono comprare. Volevo regalare il funghetto a mio fratello e ci ho messo tre ore per capire che stava esposto a caso senza essere in vendita. Idem un pupazzino di Crash Bandicoot che volevo assolutamente.
- I gadget dei Pokémon, perché Pikachu là dentro se la comanda proprio.
Ovviamente ci sono anche molti altri giochi, tipo Final Fantasy, ma non avendoci mai giocato non conosco né la storia né i personaggi, e non saprei dirti se c’erano gadget rari della serie. Con Super Mario invece io e mio fratello ci siamo cresciuti, e infatti non ho resistito alla macchinetta a gettoni del terzo piano: con 100 yen mi sono sparata una partitella. Peccato che c’ho perso un po’ la mano e ho perso quasi subito!

Abbiamo fatto un salto da Bic Camera, che è un centro commerciale. Io ho saccheggiato il reparto delle maschere per il viso, e poi ci siamo dati alla fuga in direzione della tappa successiva: il parco di Ueno.
Al parco di Ueno
Nel parco di Ueno ci sono principalmente due cose: i templi fighi e lo zoo. Oltre al parco in sé, intendo.
Ecco, soffermiamoci sullo zoo di Ueno, perché noi ci siamo entrati prima di sapere quanto cacchio era grosso e quanto tempo c’avrebbe preso. La star principale è un panda gigante che proviene dalla Cina.


Prima di passare alla seconda parte dello zoo di Ueno, che abbiamo raggiunto con la monorotaia a pagamento, abbiamo fatto una piccola pausa per darci alle rispettive droghe: una bottiglia di Georgia al caffè per me, e una sigaretta per Massimo.
Ecco, la pausa sigaretta di Massimo m’ha fatto un sacco ridere, perché in Giappone si fuma solo nelle (pochissime) smoking area, e quella dello zoo ha le sbarre su tre lati. Diciamo che Massimo non si è sentito proprio a suo agio, ecco.

Nella seconda parte dello zoo di Ueno abbiamo visto gli animali notturni, le scimmiette, gli orsi, un laghetto pieno zeppo di piante acquatiche enormi, una tartaruga gigantesca, e dei leoni marini che se la nuotavano nelle vasche e ogni volta che ci passavano davanti sembrava che sorridessero.
Mentre guardavamo l’orso bruno dell’Hokkaido da un vetro, un vecchietto giapponese ci ha sorriso fiero e ha continuato a indicarci l’orso, che intanto si muoveva di qua e di là nella sua tana. Forse anche lui veniva dall’Hokkaido…
A proposito di cose carine, devi sapere che i giapponesi fanno una cosa adorabilissima: quando gli dici qualcosa loro annuiscono sgranando occhi e bocca e sospirando un “aaah!”, ma lo fanno proprio con sentimento! Stupendo.

Usciti dallo zoo ci siamo resi conto di esser finiti leggermente in culo al mondo rispetto alla fermata di Ueno dalla quale eravamo partiti, e alla quale in teoria pensavamo di ritornare. Io a quel punto c’avevo le gambe che tremavano e una fame che parevano due. Immagina la mia faccia quando ho alzato gli occhi e ho visto che per arrivare al ristorante che avevo scelto dovevamo cambiare ben tre linee di metropolitana, oppure dovevamo tornare a piedi a Ueno!
Ovviamente ho deciso di prendere le tre linee di metropolitana, nonostante le proteste di Massimo. Di camminare un altro po’ non se ne parlava proprio.
Il delizioso ristorantino che avevo puntato è specializzato in okonomiyaki, una sorta di pizzetta a base di farina, cavolo, uovo e carne che ti cucini da solo utilizzando una piastra rovente al centro del tavolo. Questo posto in particolare, poi, era un locale molto tradizionale: appena arrivati ci hanno fatto togliere le scarpe, ce le hanno fatte chiudere in un sacchetto che ci siamo portati dietro (!!!) e ci hanno fatto accomodare per terra, sul tatami, di fronte ad un tavolo bassissimo. E’ stato meraviglioso!
→ Per saperne di più leggi il post sui ristoranti in Giappone
Appena ci siamo seduti è arrivata una signora gentilissima a spiegarci tutti i piatti sul menù. Si può scegliere il tipo di carne o pesce da mettere nell’okonomiyaki, ma non ricordo se ci sono anche vegetariani. Ti portano una ciotola con tutti gli ingredienti freschi che hai scelto, tu devi mischiare e poi spatasci tutto sulla piastra accesa. Quando l’okonomiyaki è cotto ci puoi mettere sopra un paio di salsine, lo tagli e te lo mangi!
Io ho scelto l’okonomiyaki al manzo e maiale, Massimo invece lo ha preso solo al manzo. Questa è assolutamente una delle cose più buone che abbiamo mangiato a Tokyo!

Dopo cena siamo andati a fare una passeggiata fino al tempio Senso-ji.
Al rientro abbiamo dovuto affrontare la lavatrice giapponese, perché avevamo già finito i vestiti da mettere e ne avevo portati di meno proprio perché sapevo che avrei provato la lavanderia.
Sono andata giù in reception a comprare il detersivo, che ha un costo di 130 yen per quattro chili di bucato e poi, insieme a Massimo, sono miracolosamente riuscita a lavare la nostra roba senza farla restringere o darle fuoco. Purtroppo ci siamo dovuti arrendere davanti all’asciugatrice: abbiamo messo il programma a dieci minuti, ma dopo un’ora stava ancora lì a sballottare. Nel terrore che esplodesse la lavanderia abbiamo fermato la centrifuga e tirato fuori tutto. Ci siamo portati i panni bagnati su in camera e li abbiamo stesi in bagno usando tutte le stampelle. Dopo pareva di fare pipì nella tintoria dei Puffi.

Diario di viaggio Giappone: terzo giorno al mercato di Tsukiji e Tempio Meiji-Jingu
Tokyo, 28 settembre 2017, giovedì. Il diario di viaggio del Giappone prosegue col nostro primo assaggio di sushi a Tokyo.
Qual è il posto migliore in cui mangiare del sushi fresco senza accendere un mutuo? Facile, si va a Tsukiji, il mercato del pesce di Tokyo. Tutti ci vanno, tutti lo vogliono, e ce semo annati pure noi. A digiuno. Perché prevedevo di mangiare un botto di sushi, io, e fare colazione me pareva brutto.
Già.
Partiamo dal fatto che non ci siamo svegliati all’alba e non abbiamo assistito all’asta dei tonni. L’asta mi sembrava una cosa davvero troppo turistica, e l’idea di svegliarmi prestissimo per stare fra le balle dei pescivendoli, solo per fare qualche foto, non mi piaceva. Inoltre ho sentito dire che l’accesso ai turisti è stato vietato prima delle dieci di mattina, quindi ‘ndo vai?
Perciò siamo arrivati al mercato di Tsukiji con calma, intorno alle undici, e ci siamo buttati in mezzo alle bancarelle esterne del mercato.


E ora parliamo del pesce che vendono in Giappone. Perché quello sì che è strano, il pesce giapponese è strano forte. Ho visto granchi grossi come la mia testa e delle cozze giganti, che ho assaggiato e che c’hanno un sapore completamente diverso da quello delle cozze nostre. Erano grosse come il palmo della mia mano, e ammetto che mangiarle mi ha fatto un po’ impressione!



Dopo un bel giretto e i due “antipastini di pesce”, chiamamoli così, abbiamo deciso di pranzare con del vero sushi giapponese.
Molti consigliano di mangiare nel Sushi Zanmai lì vicino, molti altri dicono che il sushi nella zona del mercato ittico è buono ovunque perché è davvero appena pescato. Noi ci siamo fidati del secondo suggerimento, e nello specifico ci siamo fidati di un vecchiettino che ci ha fermati rivolgendoci un meraviglioso buongiorno in italiano. Lì per lì ci siamo chiesti come cacchio avesse fatto a capire che eravamo italiani, visto che non stavamo parlando, poi niente, c’ha fatto troppa simpatia e siamo entrati nel suo ristorante.
Ci hanno fatti accomodare ad un tavolo sul retro – io speravo di sedermi al bancone di fronte allo chef come gli altri clienti, sob – e hanno preso la nostra ordinazione, che consisteva in un semplice vassoio di sushi misto da 2000 yen (14,74 euro).
Insieme al sushi è arrivata una ciotolina con una zuppa di pesce, e un bicchiere di tè verde che, purtroppo devo dirlo, io c’ho provato ma a me non piace proprio.
E purtroppo anche il sushi non mi è piaciuto proprio. O meglio, non è che non mi sia piaciuto, il tonno per esempio si scioglieva letteralmente in bocca. E’ che mi è rimasto tutto sullo stomaco. Poi quello con l’anguilla mi ha uccisa, aveva un sapore davvero troppo forte e mi è praticamente rientrata la faccia. Ci sono rimasta malissimo!

La passeggiata a Shibuya
Dopo ‘sta botta di vita abbiamo ripreso la metropolitana e siamo andati a Shibuya. A Shibuya c’è l’incrocio più incasinato del mondo, c’è uno Starbucks e c’è la statua del fedelissimo Hachiko, il cagnolino protagonista di una lacrima strappastorie (citando Maccio Capatonda).
Hachiko era il cane del professor Hidesaburo Ueno, e ogni giorno andava davanti alla stazione di Shibuya ad aspettare che il suo padrone tornasse dal lavoro. Un giorno il professore morì improvvisamente, e Hachiko continuò ad andare ad aspettarlo alla stazione per oltre dieci anni, finché non morì anche lui.
Avvicinandoci abbiamo notato un micio accoccolato tra le zampe della statua. Sul momento ho temuto che fosse morto anche lui, giuro. Stava su un cuscinetto e indossava un collarino col merletto, e se ne stava lì immobile a sonnecchiare con la gente che si faceva le foto a pochi centimetri da lui.
Ovviamente la foto ce la siamo fatta pure noi, quindi ecco me, Massimo, Hachiko e il micetto!

E poi che fai, non ti ci butti nell’incrocio più grande del mondo? Certo che te ce butti, mica che stiamo qui a pettinare i pelati.
Mentre passavo dall’altra parte dell’incrocio mi chiedevo cosa succederebbe in Italia con un incrocio del genere. Perché nell’incrocio di Shibuya c’è gente che attraversa in orizzontale, in verticale, in diagonale, e se potessero farlo uscirebbero pure dai tombini, ne sono sicura. Sai cosa vuol dire questo? Che se stai andando al lavoro in macchina e ti scatta il semaforo rosso a Shibuya sei fregato per un quarto d’ora. Fai in tempo a scendere e a prenderti un caffè, prima di ripartire.
Secondo me è pure colpa di Shibuya se a Tokyo ci sono poche macchine. Ed è pure colpa dei parcheggi. Perché io e Massimo abbiamo notato che a Tokyo ci sono pochissimi parcheggi. Che Paese fantastico il Giappone!
L’inferno per ogni donna: il centro commerciale 109
Dopo l’incrocio siamo andati a dare un’occhiata al 109. Il 109 è un centro commerciale gigantesco dedicato quasi esclusivamente all’abbigliamento femminile.
Il problema del 109, però, è che l’ingresso alle donne dovrebbe essere vietato. Perché tu entri lì dentro e l’autostima ti guarda, ti prende a schiaffi, chiude baracca e burattini e ti saluta definitivamente. Là dentro ci sono commesse che non sono fighe, di più. Sembrano visioni. Sono bellissime, sono altissime (indossano tacchi talmente alti che secondo me sono illegali), sono truccate benissimo e vestite ancora meglio. Non a caso, ho sentito dire che in quel centro commerciale vanno a cercare talenti per il mondo della moda, e questo in effetti spiega tutto. Io al 109 ci sono entrata per comprare qualcosa, ma alla fine mi sono vergognata talmente tanto che sono solo andata al bagno. Io e quelle lì non sembravamo neanche della stessa razza!
Entrando nell’antibagno ho visto due ragazze adolescenti e ho chiesto loro se fossero in fila, ovviamente non in inglese perché non lo capivano, ma a gesti come i babbuini. Le due mi hanno guardata strano e poi son scoppiate a ridere. Io mi sono messa a ridere appresso a loro, ma mica ho capito che cavolo c’avevano da ridere. Boh.

La visita al tempio Meiji-Jingu a Tokyo
Terza tappa della giornata: il tempio Meiji-Jingu, un tempio shintoista dedicato all’imperatore Meiji e a sua moglie Shoken. E’ uno dei templi più famosi di Tokyo e si trova all’interno di un enorme parco, a circa un chilometro e mezzo di cammino da Shibuya. E’ uno dei posti in cui è più facile vedere un matrimonio tradizionale shintoista, ma noi non abbiamo avuto questa fortuna.
Una delle cose più belle di Tokyo è che si passa con estrema facilità dai grattacieli ai templi sacri nel giro di pochi metri. Anche il parco di Ueno, di cui parlerò tra poco, si trova in un’area modernissima e piena di palazzi, ed è pieno di templi.
Tornando al tempio Meiji, se ci arrivi a piedi come abbiamo fatto noi sappi che devi camminare un bel po’ in mezzo alle frasche prima di arrivarci, ma ne vale la pena. E comunque tutto sta ad arrivare al parco, poi basta seguire il sentiero un po’ a caso e prima o poi al tempio ci arrivi.
Arrivando al tempio si passa vicino ad un vero e proprio muro di barili di sakè, che vengono offerti al Meiji-Jingu ogni anno.


Devi sapere che in tutti i templi giapponesi, o almeno in tutti quelli che ho visto io a Tokyo durante il viaggio in Giappone, ci sono almeno tre tipi di portafortuna:
- gli omamori, cioè gli amuleti a forma di sacchettino che non vanno MAI aperti;
- gli omikuji, bigliettini con delle predizioni divine che estrai a sorte e che, se te dice male, devi legare ad una fune vicino ad un pino del tempio per far sì che la sfigaccia predetta rimanga lì e non ti segua forevah;
- gli ema, delle tavolette di legno su cui va scritto un desiderio o una preghiera, e che vanno lasciate al tempio.
Io li volevo tutti, ma alla fine ho preso solo qualche bellissimo omamori.


E Shinjuku?
Mi è venuta la brillante idea di fare una capatina pure a Shinjuku, un altro dei quartieri famosi di Tokyo, ma arrivata lì eravamo troppo stanchi e non me ricordavo cosa dovevo vedere a parte, beh, Shinjuku stessa che comunque è figa parecchio. Lì c’è il Golden Gai, una zona con circa duecento bar minuscoli di quelli che ospitano al massimo cinque o dieci clienti.
Ah, a Shinjuku c’è pure la stazione ferroviaria di Shinjuku, famosa perché come te perdi lì dentro non te perdi da nessun’altra parte. Noi ci abbiamo passato interi quarti d’ora e poi ci ritrovavamo sempre nello stesso punto, senza capire dove fosse il binario che ci serviva.
Abbiamo concluso la giornata con una cena a base di shabu-shabu. Trovi tutti i dettagli nel post sui ristoranti giapponesi!


Diario di viaggio Giappone: Kamakura, polpette e ristoranti cinesi
Kamakura è una deliziosa città di mare ad una cinquantina di chilometri da Tokyo ed è famosa per il Daibutsu, un Buddha di bronzo alto 11 metri.
Siamo arrivati a Shinjuku, ci siamo persi nella stazione sei o sette volte come d’abitudine, e poi abbiamo preso la linea metropolitana Shōnan-Shinjuku fino a Kita-Kamakura. Ci vuole circa un’oretta. Da lì ce la siamo fatta a piedi fino al Daibutsu, seguendo le indicazioni per strada.
Per fortuna abbiamo beccato una bellissima giornata, e Kamakura è proprio carina. Sono meno carine le indicazioni sparse un po’ dappertutto su cosa fare in caso di tsunami. Minchia che ansia!


Lungo la strada ci siamo fermati in un conbini perché ero rimasta senza uno yen, e ne ho approfittato pure per comprare… ehm… gli assorbenti. Sì, quelli per le mestruazioni. Perché nei conbini di solito ci trovi sia i bancomat che i bagni, e ne ho approfittato per cambiarmi.
E ora riflettiamo su una cosa: come è possibile che le giapponesi, che stanno avantissimo e sono di corporatura più piccola rispetto a noi occidentali, usino degli assorbenti alti come dei materassi? Eh? E come fanno a camminarci senza sembrare deficienti? Io sono uscita dal conbini camminando sciolta come Mazinga, dimmi te se è normale!
L’Hasedera Temple di Kamakura
Vabbè, torniamo seri. A Kamakura, lungo la strada per il Daibutsu, ci siamo imbattuti in un parco con una serie di templi e abbiamo deciso di visitarlo, perché sembrava proprio carino. Si tratta dell’Hasedera Temple di Kamakura, uno dei trentatré luoghi sacri dell’area del Kanto.
Secondo la leggenda, nel 721 d.C. il monaco Tokudo Shonin trovò un albero di canfora enorme dalle parti del villaggio di Hase, nella regione di Nara, e pensò di ricavarci due statue della divinità a undici teste Kannon. Una delle due statue è conservata nel tempio Hasedera di Nara, mentre l’altra è stata gettata in mare e sarebbe riapparsa solo al momento di “salvare il popolo”. E’ spuntata quindici anni dopo sulla spiaggia di Nagai, vicino a Kamakura, e l’Hasedera è stato costruito per onorarla.


L’ingresso al tempio costa 300 yen, altre informazioni le trovi sulla pagina ufficiale dell’Hasedera Temple. All’interno del complesso bisogna seguire un percorso che sale e scende lungo la collina, e porta ai diversi templi dedicati alla divinità Kannon.
L’Hasedera Temple è un posto veramente molto bello e rilassante, ottimo per una passeggiata all’aria aperta e per scattare belle foto tra il verde, con scorci sulla costa vicina. C’è da camminare un po’ ma niente di eccessivo, e verso la metà del percorso ci sono dei punti panoramici sulla penisola con una bella terrazza. Lì ci trovi anche una signora che vende una specie di mochi morbidini, che lei chiama “dumplings”, gnocchi. Erano molto buoni!



Visita al Daibutsu
Finito il giretto all’Hasedera Temple siamo tornati a seguire le indicazioni per il Daibutsu.
Per strada ci siamo accorti di un camioncino che vendeva i takoyaki, palline di polpo fritte finite decorate con una salsa deliziosa e scaglie di tonno secco. Sono entrate da subito nella lista di cose da assaggiare a Tokyo, perciò io e Massimo ne abbiamo approfittato e ci siamo divisi una porzione da sei. Al posto del tonno abbiamo trovato dei minuscoli pescetti fritti. Mamma mia che bontà raga’…
Bisogna solo stare attenti ad un piccolo particolare: i takoyaki vengono serviti alla temperatura della lava e, anche se sembrano tiepidi, l’interno può fonderti il palato in due secondi. Occhio a mangiarli piano piano!

A quel punto il takoyaki ci aveva aperto lo stomaco e, siccome la strada per arrivare al Buddha sembrava ancora lunga, abbiamo iniziato a cercare un posticino dove pranzare. Ci siamo infilati in un ristorante che sembrava piuttosto caratteristico, e ci hanno fatti accomodare praticamente subito. L’arredamento e le decorazioni sui piatti e sui mobili, però, erano diversi da quello che avevamo visto fino a quel momento. Poi abbiamo ricevuto i menù, e abbiamo avuto la conferma definitiva.
Eravamo finiti in un ristorante cinese. A Kamakura, in Giappone. Ma poco male, del resto prima o poi voglio andare anche in Cina!
Io ho preso una scodella di ramen cinese a base di maiale, molto buono ed abbondante, mentre Massimo s’è buttato sul riso e su un piatto di carne e pesce misti. A parte abbiamo preso anche un piatto di shumai, una specie di ravioli poco saporiti con dentro carne o pesce. Ecco, quelli non ci hanno fatto impazzire.


Dopo pranzo a Massimo è venuto in mente di fumarsi una bella sigaretta, ma a Kamakura non avevamo ancora visto nemmeno una smoking area, così abbiamo chiesto alla proprietaria del ristorante se poteva indicarcene una nei paraggi. Lei, gentilissima, ci ha aperto il retro del ristorante (!!!) e ci ha permesso di fumare nell’ingresso di quella che sembrava una casa privata. Troppo caruccia!
Infine siamo giunti al cospetto del Daibutsu di Kamakura. Finalmente!
Hanno iniziato a costruirlo nel 1252 e ci sono voluti ben dieci anni per realizzarlo. Intorno alla statua in realtà c’era anche un tempio, che però andò distrutto a causa dei forti venti di due tempeste, una nel 1334 e l’altra nel 1369.
Il Buddha è alto, compresa la base, 13,4 metri e pesa la bellezza di 121 tonnellate. Prova ad alzarlo, va’!
Sai che ci si può anche entrare dentro? Noi lo abbiamo fatto poco prima della chiusura, ma devo dire che la visita non è molto interessante. Si può evitare.

Diario di viaggio Giappone: ultimo giro a Tokyo e notte in un ryokan
Tokyo, 30 settembre 2017, sabato. Penultimo giorno del viaggio in Giappone: lasciamo la camera del Mystays Asakusabashi per trascorrere l’ultima notte giapponese in un ryokan tradizionale.
Dopo aver fatto i bagagli e il check-out ci siamo messi in marcia per raggiungere il ryokan, che si trova in zona Asakusa (senza bashi). Meno male che la zona è praticamente la stessa perché Asakusa, per gli amici Asaxa, è diventata il nostro quartiere preferito.
Il ryokan Kamogawa Asakusa si trova praticamente alle spalle del tempio Senso-ji, a due stradine di distanza. La zona è piena di locali e ristoranti, c’è movimento ma non c’è caciara, e dopo una settimana passata a girarla in lungo e in largo posso dire ufficialmente che la zona in cui consiglierei a tutti di alloggiare.
E ora, il ryokan. Ti giuro che sembra di entrare in un altro mondo. Anzi, sembra di entrare nei cartoni animati giapponesi: l’ingresso è una stanzina col legno sul pavimento, il bancone, l’entrata di una piccola sala ristorante sulla destra e quella per la onsen privata sulla sinistra.
Una onsen è una sorgente termale giapponese, che in questo caso è privata e perfetta per quelli che, come me, hanno dei tatuaggi e non possono frequentare le onsen pubbliche senza problemi.
Il ryokan ha anche l’ascensore, che stona un po’ in questo contesto, ma fa comodo per le valigie.
Siamo arrivati troppo presto per avere la stanza, erano quasi le dieci, ma era voluto: volevamo lasciare l’hotel precedente entro l’orario consentito e mollare le valigie da qualche altra parte, prima di proseguire col programma della giornata. Alle undici dovevamo stare a Kiba, quindi abbiamo fatto un check-in veloce al ryokan e siamo andati di corsa a prendere la metropolitana.

Perché a Kiba? Perché dovevamo andare a cucinare un tradizionale pranzo giapponese insieme a Kaori, che non è quella del Philadelphia ma è una carinissima cuoca che mette a disposizione un piccolo studio e la sua lunga esperienza culinaria per insegnare ai turisti come si preparano alcuni piatti tipici del suo Paese.
In cucina con dei cuochi giapponesi: a pranzo con Kaori
Ti avevo detto che cercare una casa in Giappone tramite l’indirizzo è un suicidio? No? Bene, te lo dico adesso. Perché in Giappone non funziona mica come da noi, che tu imbocchi una strada, cerchi il numero civico e hai trovato quello che cerchi.
NO.
In Giappone esiste un sistema totalmente diverso per i civici, i cui numeri indicano la zona, la posizione all’interno di quella porzione di zona, e insomma è tutto un casino. E non è che sono cretina io o lo sono gli occidentali, è proprio che non ci si capisce una fava. Infatti i giapponesi che devono darti un indirizzo di solito ti disegnano anche una piantina con dei punti di riferimento fisici, tipo palazzi particolari, semafori, insegne.
Kaori, insieme all’indirizzo, mi aveva mandato la foto di un distributore di benzina ai piedi del suo condominio, e nelle indicazioni mi aveva detto di attraversare il ponte. Ecco, pure il concetto di attraversare il ponte mi sa che in Giappone è diverso, perché un paio di chilometri dopo ‘sto benedetto ponte (il posto doveva stare a 100 metri) ho capito che la strada era sbagliata, e siccome si stava facendo paurosamente tardi ho fermato un taxi e gli ho chiesto, praticamente tra le lacrime, di portarci a destinazione.
Solo dopo ho capito che il ponte non si doveva attraversare, si doveva seguire.
E insomma, parecchie scuse dopo ci siamo tolti le scarpe ed eravamo finalmente a casa di Kaori, che ci ha accolti con un mega sorrisone e due cagnetti bianchi di cui ho faticato a dedurre la razza.
La casa era piccolina, costituita da un piccolo ingresso dove abbiamo lasciato borse e zaini, le scarpe e i cani; una specie di soggiorno con una grande finestra e un tavolo al centro, collegato ad un’altra stanzetta con un altro tavolo e dei divani con le sedie; un cucinino stretto e lungo, col lavello da una parte e i fornelli dall’altra, largo una persona e mezza (per tenere le cose sul fuoco dovevamo entrare uno per volta, o si creava un intoppo che manco la mattina sul raccordo anulare) e infine un micro bagno dove ci siamo lavati accuratamente le mani prima di iniziare a cucinare
Insieme a me e a Massimo c’erano una coppia di sudafricani sulla quarantina mediamente simpatici, di cui non ricordo i nomi, e un padre neozelandese, Craig, con la figlia. A darci lezioni c’erano Hajime, il marito di Kaori, cuoco pure lui ma incaricato di farci tremila foto e di mandarcele una volta tornati a casa, e ovviamente Kaori.
Il menù prevedeva la preparazione di quattro piatti tipici giapponesi: udon preparati nella versione del Kansai e poi nella versione del Kanto, okonomiyaki e monjayaki.


Gli udon sono una specie di spaghetti ciccioni che si preparano con acqua, farina e sale. Per farli abbiamo usato anche la macchina per la pasta. Si mangiano in un brodo che contiene salsa di soia e polvere di dashi, tipo ramen.
Gli okonomiyaki sono una specie di frittatona a base di maiale, verza e uova, che bisogna mangiare con delle salsine. Sono la fine del mondo.
Il monjayaki ha ingredienti simili all’okonomiyaki, ma rimane molto più liquido e insipido: per mangiarlo con le bacchette diventi stupido!
Un ingrediente a testa, una battuta a testa, abbiamo cucinato questi piatti tutti insieme, seguendo le istruzioni dei padroni di casa.
Highlights dell’esperienza:
- Kaori che chiede ad ognuno di presentarsi, e Massimo che dice “I’m Massimo, I’m from Italy, but I don’t speak English so ask everything my girlfriend” indicando la sottoscritta, che sbianca;
- Io che capisco Kaori e il marito, capisco il padre neozelandese, ma non capisco una fava quando parlano i due sudafricani, e colleziono figure di merda fotoniche;
- Kaori che ci dice di stare attentissimi con le quantità degli ingredienti, perché è il segreto per la riuscita dei piatti giapponesi, e poi chiede a me di dosare la salsa di soia al millilitro;
- Massimo che dopo venti minuti se la ride con Craig manco fossero amici da una vita;
- i due sudafricani che chiedono a me e a Massimo se amiamo fare la pasta fatta in casa (certo, tra una suonata di mandolino e l’altra) e gli stessi che si sorprendono quando dico loro che cucina quasi sempre lui;
- Kaori che infila le palline di pasta di udon dentro tre bustine di plastica (uno a coppia), le sigilla e ce le fa pestare coi piedi per spianare la pasta prima di passarla nella macchinetta.



Highlights dell’esperienza:
- Kaori che chiede ad ognuno di presentarsi e Massimo che dice “I’m Massimo, I’m from Italy, but I don’t speak English so ask everything my girlfriend” indicando la sottoscritta che sbianca;
- Io che capisco Kaori e consorte, capisco il padre neozelandese, ma non capisco una fava quando parlano i due sudafricani e colleziono figure di merda fotoniche;
- Kaori che ci dice di stare attentissimi con le quantità degli ingredienti, perché è il segreto per la riuscita dei piatti giapponesi, e poi chiede a me di dosare la salsa di soia al millilitro;
- Massimo che dopo venti minuti se la ride con Craig manco fossero amici da una vita;
- i due sudafricani che chiedono a me e a Massimo se amiamo fare la pasta fatta in casa (certo, tra una suonata di mandolino e l’altra) e gli stessi che si sorprendono quando dico loro che cucina quasi sempre lui;
- Kaori che infila le palline di pasta di udon dentro tre bustine di plastica (uno a coppia come i bravi bambini), le sigilla e ce le fa pestare coi piedi per spianare la pasta prima di passarla nella macchinetta. Allegro prova fotografica:
Appena finito di cucinare ci siamo riuniti tutti intorno al tavolo nella seconda stanzetta, e abbiamo mangiato come un’allegra famigliola multiculturale.
E’ stato proprio bello!

E loro sono Kaori e Hajime.
La foto non era compresa fra quelle che mi hanno mandato, ma ho detto a Kaori che avrei parlato di quest’esperienza sul blog e che mi dispiaceva non aver foto insieme a loro due. Non sono carinissimi coi kimono?
Io ho prenotato questa esperienza su Airbnb ma lì non la trovo più, quindi ti lascio gli altri contatti di Kaori e Hajime: li trovi Facebook col nome Cooking Kodama Kitchen oppure sul sito Kodama Kitchen.

Nippori e Yanaka
Il secondo appuntamento della giornata prevedeva l’incontro con Stefania di Prossima fermata Giappone, che abita a Tokyo. L’abbiamo raggiunta a Nippori.
Stefania adora portare i turisti in giro per Tokyo, e si può dire che io e Massimo ne abbiamo approfittato spudoratamente: ci siamo fatti scarrozzare in giro per Yanaka e Nezu, e infine siamo tornati al parco di Ueno, che però era in chiusura.
Yanaka è un quartiere dal fascino antico, pieno di piccoli edifici risalenti al periodo Edo e di negozietti che vendono oggettistica ispirata ai gatti. Pare sia sopravvissuto ad un grosso terremoto del 1923. E’ moooolto carino da girare.



Passando attraverso i torii del santuario Nezu mi sono tolta una grossa curiosità: ho chiesto a Stefania se le scritte lungo i pali fossero preghiere. E no, non lo sono. I torii dei templi vengono comprati da chi apre una nuova attività, sperando che siano di buon auspicio, e le scritte sono semplicemente i nomi dei negozi.

Ovviamente non sono mancate le fermate per il cibo.
Ci siamo fermati ad una bancarella che vendeva yakitori, degli spiedini di carne grigliata e a forma di pallina, e poi abbiamo assaggiato un taiyaki che è un dolcetto portafortuna a forma di pesce, ripieno di marmellata di fagioli azuki. La bancarella che li vende si chiama Nezu no Taiyaki.

Qualche chilometro dopo eravamo al parco di Ueno, ormai buio.
A quel punto ci siamo salutati con Stefania, abbiamo fatto un salto rapido all’Hard Rock Cafè della stazione per comprare la solita spilla e poi ci siamo trascinati – quasi letteralmente – verso la metropolitana in direzione di Asakusa: alle 19 ci aspettava la nostra splendida onsen privata!
L’esperienza nel ryokan
Al ryokan abbiamo finalmente preso possesso della stanza. Avevamo praticamente un appartamento!
La primissima cosa che mi ha colpito è stata l’odore: la stanza sapeva di stuoia, di fieno. Non saprei come altro descrivertelo. E si tratta dell’odore caratteristico del tatami.
Appena entri nella stanza c’è un piccolo ingresso, dove si trovano subito un paio di ciabatte nere a testa e un bagno piccolissimo (completo di vasca!) sulla destra, che sarà largo un metro quadro ma ha comunque le sue ciabatte bianche a parte, il wc e il lavandino. Non solo: l’asse del wc si riscalda. E sembra una cavolata, ma non puoi capire che goduria!
Proseguendo nel piccolo ingresso si sale un gradino e si arriva alla prima stanza, quadrata, al centro della quale c’è un tavolo bassissimo con due sedie senza… ehm… le gambe. Sul tavolo abbiamo trovato un paio di dolcetti e una scatola tonda contenente un servizio da tè, di ceramica decorata, che non abbiamo osato usare. C’era anche un bollitore, e le finestre erano… rivestite di carta!
All’angolo destro c’è un mobile col televisore sopra, e in fondo si accede alla camera da letto dove troviamo due futon ben stesi sul tatami. I futon sono i letti tradizionali giapponesi, quelli che si possono arrotolare e ficcare negli armadi delle antiche case giapponesi. Sembrano scomodi, ma credimi che non lo sono affatto. Non dormi per terra come dicono, sotto c’è una sorta di materasso alto circa quindici centimetri.
Accanto all’armadio abbiamo trovato anche due yukata. Non sappiamo se si usano solo per dormire o pure per andare in giro per il ryokan, ma noi li abbiamo usati pure per scendere nella onsen. Sono stupendi!

La onsen privata di questo ryokan aveva una sorta di antibagno, coi lavandini e il necessario per spogliarsi e rivestirsi – phon, asciugamani, kit di rasatura, pettini usa e getta… – e poi la onsen vera e propria, con la vasca di acqua bollente pronta ad essere utilizzata.
Intanto va detto che la onsen non si usa come una piscina, che ti spogli e ti ci butti dentro e fai casino. E’ un’occasione per rilassarsi con discrezione, e come tale deve essere vissuta.
La prima cosa è che ci devi entrare nudo come mamma t’ha fatto. Niente costume, specialmente se vai in quelle pubbliche, che spesso sono divise per sesso. L’unica cosa che puoi portarti dietro è un piccolo asciugamano, fornito dai proprietari, che puoi bagnare con acqua fredda e tenere sulla testa per sopportare meglio l’alta temperatura dell’acqua.
Prima di entrare nella vasca ci si deve lavare accuratamente, e questa operazione si può fare nei lavatoi. Ci sono dei piccoli sgabelli, dei doccini, un secchietto per l’acqua e vari flaconi di sapone: tu ti siedi, ti insaponi bello preciso e poi ti sciacqui per bene, e solo allora puoi entrare nella vasca d’acqua calda.
Quanto bisogna rimanere nella onsen?
Dipende da quanto reggi l’alta temperatura dell’acqua. Io dopo dieci minuti ho iniziato ad avere dei cali di pressione, mentre Massimo ha retto un po’ di più. Sono rimasta mezz’ora in tutto, entrando ed uscendo ad intervalli regolari, e riempiendo in continuazione l’asciugamanetto con l’acqua fredda.
Grazie al cacchio che ti rilassi, praticamente ti cuoci a bagnomaria! Però l’esperienza merita, e quando esci ti senti talmente rilassato che sei tutto molle e informe tipo gelatina.
Per cena abbiamo mangiato un ottimo tonkatsu: del maiale panato accompagnato da riso e dalla zuppa di miso più buona dell’universo. Probabilmente diventerà il mio nuovo piatto preferito.

Diario di viaggio Giappone: ultimo giorno
Tokyo, 1 ottobre 2017, domenica. Ultimo giorno del viaggio in Giappone.
Al ryokan ci avevano proposto una colazione col sushi, ma non ce l’ho fatta. Quello che ho mangiato a Tsukiji m’era decisamente bastato. Abbiamo scelto una colazione continentale che comprendeva più o meno le classiche cose che si trovano in tutti gli hotel.
Abbiamo lasciato le valigie al ryokan e abbiamo fatto un altro giretto per salutare il Senso-ji, poi siamo tornati al parco di Ueno perché avevamo visto il tempio Benten-do di striscio il giorno prima, e mi aveva colpita.
Il Benten-do è dedicato alla dea Benzaiten, la dea dell’acqua, e non a caso si trova in mezzo al laghetto del parco, circondato dalle ninfee. Si raggiunge tramite una stradina sopraelevata, che abbiamo beccato piena di bancarelle che vendevano cibo di strada.

Concludo questo diario di viaggio del Giappone annunciando che mi sono levata lo sfizio di tornare al 109, il malefico centro commerciale pieno di commesse top model, per comprarmi qualcosa. Ho infilato in valigia un paio di scarpette blu col tacco basso, a dir poco deliziose. Tiè.
Leggi anche il secondo diario del viaggio in Giappone, con destinazione Kyoto e Osaka!
Condividi questo post se ti sei divertito/a a leggerlo, e non dimenticare di seguirmi su Facebook e Instagram per rimanere sempre aggiornato/a sui nuovi post!
I COMMENTI

Ciao, io sono Anna!
Sono una travel blogger di Roma, sul web con Profumo di Follia dal 2012. Organizzo viaggi in piena autonomia da sempre, soprattutto nel weekend e nelle capitali europee.
Ho una passione per la Finlandia che mi ha portata a studiare la lingua finlandese per un anno e mezzo e a progettare di esplorarla in lungo e largo.
Sono una travel blogger di Roma, sul web con Profumo di Follia dal 2012. Organizzo viaggi in piena autonomia da sempre, soprattutto nel weekend e nelle capitali europee.
Ho una passione per la Finlandia che mi ha portata a studiare la lingua finlandese per un anno e mezzo e a progettare di esplorarla in lungo e largo.